Presentazione
(a cura di Andrea Borri) pag. 9
Una vita dedicata all'impegno per il
Paese, con l'attenzione sempre rivolta ai più deboli. Una vita da
protagonista del Novecento, quella di Giuseppe Micheli, nato a ridosso
dell'unità finalmente raggiunta (nel 1874, in un'Italia tesa fra
arretratezze croniche e una spinta già novecentesca ad immettersi nella
"fiumana del progresso") e morto (a 74 anni) subito dopo la costituzione del
primo Parlamento della Repubblica. Un Parlamento in cui, appena dopo la
dolorosa parentesi fascista, Micheli entra (dopo le tante legislature del
periodo pre-dittatoriale) non da eletto ma da senatore di diritto, motivo,
questo, più di rammarico che di soddisfazione: «Questa trasmigrazione di una
parte di noi al Senato ci fa lasciare questi seggi con grande malinconia
dichiara nell'ultima seduta dell' Assemblea costituente-. È vero, non omnis
moriar, ma qualcosa di diverso vi è in questa quasi artificiale
sopravvivenza nostra che finisce per turbarci. Noi non torneremo più qui
attraverso il clamore della battaglia, vincendo la quale sapevamo di poter
parlare qui, e fuori di qui, con ben altra autorevolezza».
In queste poche parole c'è molto
dello spirito di Giuseppe Micheli, uomo
d'azione, fortemente
concreto, desideroso di misurarsi "sul campo" e di verificare il consenso
degli elettori, di quei cittadini per la cui partecipazione effettiva alla
vita politica del Paese egli tanto si è battuto: con una tenacia, una forza
e un'onestà intellettuale a
dir poco ammirevoli.
L'ingresso in Parlamento risale a
quarant'anni prima, nel 1908, alla vittoria di Micheli nelle elezioni
suppletive del 17 maggio nel collegio di Castelnuovo Monti: ma la sua
vicenda politica (nel senso più pieno del termine) prende avvio ancora più
indietro, in anni davvero giovanili. E una breve panoramica sulle tappe
salienti dell' attività di quel periodo testimonia inequivocabilmente della
forza della sua vocazione, quella che a soli quindici anni gli fa
frequentare attivamente la scuola di studi sociali del salesiano Carlo Maria
Baratta (di cui diventa assiduo collaboratore): in quel torno d'anni Micheli
è segretario della sezione giovanile dell'Opera dei congressi di Parma; gira
l'Italia occupandosi di associazionismo operaio e di cooperazione rurale e
diventa direttore del periodico "La cooperazione popolare" (organo di
sostegno delle casse rurali); è tra i firmatari dell'Appello agli studenti
(pag.10) cattolici italiani del 1895, da cui nasce -l'anno successivo- la
FUCI; fonda nel 1899 l'associazione La Giovine Montagna, per la
valorizzazione dell' Appennino emiliano, da cui nel 1900 scaturisce il
periodico "La Giovane Montagna" ("Organo degli interessi delle vallate
parmensi e pontremolesi"); guarda con attenzione alla dimensione
internazionale interessandosi delle esperienze politiche ed economiche dei
cattolici tedeschi e belgi; analizza le idee democratiche di francesi e
americani; partecipa attivamente alla neonata Associazione dei Comuni
italiani, entrando a far parte del Consiglio direttivo con Sturzo e
dirigendone l'organo di stampa ufficiale; idea e promuove innumerevoli
iniziative a prima vista distanti tra loro, ma in realtà espressione di un
unico grande disegno sociale e politico.
Micheli ha alle spalle tutto questo
-questa lunga esperienza con la gente- quando nel 1908 entra in Parlamento.
Un ingresso quasi in punta di piedi, poi ripetutamente confermato negli anni
a venire: è deputato per quasi un ventennio (dal 1908 al 1926), deputato
alla Costituente nel 1946-47 e senatore di diritto nella prima legislatura
della Repubblica; è inoltre ministro dell' Agricoltura e dei Lavori pubblici
prima della dittatura fascista, e ministro della Marina nel secondo governo
De Gasperi.
Una carriera lunga e piena
d'iniziative, piena d'azione, per un politico cattolico (protagonista
assoluto delle sorti e dei progressi del movimento cattolico italiano, dagli
impacci del Non expedit ai successivi affrancamenti da esso: dalla presenza
attiva, dopo uno scetticismo della prima ora, nel Partito popolare di Sturzo
alla presidenza del I Congresso della Democrazia cristiana) cui sono legati
tanti momenti fondamentali -tante conquiste fondamentali- della nostra
storia democratica: cito solo la legge elettorale proporzionale (Micheli ne
è relatore alla Camera dei deputati nel 1919), che ha spostato l'ottica
politica italiana chiamando gli elettori stessi a una partecipazione più
larga (e nella sostanza più concreta) e che ha segnato un'importante
stagione politica del nostro Paese, e l'opposizione ferma alla legge Acerbo
nel 1923 (Micheli è relatore di minoranza), che preparava la dittatura. E
poi i tanti provvedimenti proposti e sostenuti da ministro, su cui non mi
soffermo.
Parlamentare, ministro, personaggio
di primo piano della vita politica nazionale. Non per questo, però, sordo
alle istanze anche più minute dei più deboli (di quelli che di solito
faticano a far sentire la propria voce): la sua sensibilità -la sua profonda
umanità- appare del tutto evidente nell'impegno tra la gente di Messina
colpita dal disastroso terremoto del 1908 (il giovane deputato Micheli,
appena eletto alla Camera, si rimbocca le maniche e aiuta la città a
rinascere) e nel comportamento tenuto nel corso della Prima guerra mondiale,
(pag.11) quando, superati i dibattiti sull'interventismo, si preoccupa in
primo luogo delle concrete esigenze della popolazione rurale colpita dalla
chiamata al fronte dei contadini. Legatissimo, sempre, alla sua terra: il
Micheli "romano" e "nazionale" non dimentica né l'amore per la montagna e
per la sua gente (ai cui problemi è sempre stato vicino e sensibile) né le
passioni coltivate fin da ragazzo come quella per gli studi storici (copiosa
la sua produzione su Parma e il Parmense), né -tantomeno- il suo interesse
per la professione di notaio.
Non è in realtà nemmeno corretto
parlare di un Micheli "locale" e di un Micheli "nazionale", proprio perché
le due dimensioni s'intrecciano perdendo ciascuna i propri contorni in senso
stretto. L"'universo Micheli" è estremamente articolato e vario, e anche gli
aspetti più apparentemente lontani dalla scena politica nazionale sono
tessere indispensabili di un mosaico altrimenti incompleto: Micheli il
politico, il parlamentare, il ministro, l'aventiniano, ma anche Micheli
l'amico della montagna e della sua gente, l'uomo nel cui studio si
costituisce il CLN di Parma, l'inesausto animatore di associazioni, gruppi,
iniziative le più diverse.
Una personalità composita,
complessa: straordinaria e prorompente nelle sue mille sfaccettature. Senz'
altro non valutata appieno nella sua centralità nella storia italiana del
Novecento. L'opera del Comitato per le celebrazioni per i 50 anni della
morte di Giuseppe Micheli e per i 100 anni della fondazione
dell'associazione La Giovine Montagna, con le tante iniziative organizzate a
partire dal 1998 (anno del cinquantenario della morte), ha tentato di
colmare la lacuna -una lacuna grave per la storiografia italiana-
coinvolgendo nomi tra i più illustri della riflessione storico-politica del
nostro Paese e trovando nel convegno di cui questo volume riporta gli atti
il suo momento centrale: una "tre giorni" di assoluto rilievo che ha avuto
l'enorme pregio di proporre un approccio sistemico al personaggio. Credo
infatti che l'aver separato l'uomo del territorio, strettamente connesso al
suo collegio e ai suoi elettori, dal ministro e dal membro di consessi di
alto livello possa essere stato in passato uno degli ostacoli a una
valutazione ampia e completa della figura di Micheli: l'aver affrontato
tutti questi aspetti insieme ha senza dubbio costituito uno dei grandi
meriti del convegno, la cui notevole levatura qualitativa è ben testimoniata
dalla profondità e dal valore degli interventi qui raccolti.
ANDREA BORRI
Introduzione
(Giorgio Vecchio e Matteo Truffelli) pag. 15
Questo volume
raccoglie i testi delle relazioni presentate al convegno su "Giuseppe
Micheli nella storia d'Italia e nella storia di Parma", svoltosi dal 24 al
26 febbraio 2000 presso l'Università degli Studi di Parma, nell'ambito delle
manifestazioni indette per ricordare il cinquantenario della morte di
Micheli (1948-1998) e il centenario della fondazione dell' associazione
Giovane Montagna (18991999). Sono inoltre stati aggiunti i testi delle due
relazioni a carattere storico preparate per il convegno «"La Giovane
Montagna": Giuseppe Micheli e l'Appennino emiliano tra ieri e domani»
tenutosi a Borgotaro l'11 novembre 2000 I.
Tutte queste iniziative hanno inteso
rispondere ad un selettivo criterio scientifico, vale a dire quello di
ripercorrere l'avventura umana di Micheli superando luoghi comuni e cose
note, per cercare il più possibile di scoprire nuove carte e di mettere in
luce aspetti finora ignorati. In questo senso si sono volutamente lasciati
in ombra temi finora già piuttosto studiati, come -per esempio- il
contributo offerto dalla rivista micheliana "Politica nazionale", oppure
l'attività di Micheli come deputato in epoca giolittiana e nel primo
dopoguerra.
Un lavoro di scavo archivistico di
questo genere è stato possibile grazie anche alla collaborazione della
direzione e del personale della Biblioteca Palatina di Parma, custode
dell'immenso materiale cartaceo lasciato da Micheli: è quindi d'obbligo un
cordiale e sentito ringraziamento a nome di tutti gli studiosi coinvolti
nell'iniziativa.
Il titolo delle succitate
manifestazioni, ripreso come titolo di questo libro, non è puramente
retorico o celebrativo: se mai vi fu nella storia italiana del Novecento un
uomo politico capace di coniugare il legame con la propria terra natia con i
generali problemi dello Stato e della nazione, ebbene questo fu Giuseppe
Micheli. Egli non fu l'unico a rispondere a questa caratteristica, ma
certamente il suo impegno in tal senso fu esemplare.
In un'epoca nella quale si vogliono
giustamente riscoprire e valorizzare le radici storiche e le tradizioni
culturali di ogni comunità locale, anche di fronte alle sfide della
cosiddetta "globalizzazione", basterebbe questo dato di fatto per rendere
utile una rilettura del pensiero (pag. 16) e dell'azione di Micheli, per
quanto -va subito detto, per evitare equivoci- il suo orizzonte rimase
quello italiano, non mostrando egli particolari interessi per la politica
internazionale.
La biografia umana e politica di
Micheli risulta ulteriormente interessante a causa del fatto che egli
attraversò attivamente una grande parte delle vicende dell'Italia
contemporanea: nato a Parma nel 1874, quindi solo quattro anni dopo la presa
di Roma e la fine del potere temporale della Chiesa, morì appunto nel 1948,
poco dopo la decisiva battaglia elettorale del 18 aprile. Partecipò pertanto
a tutte le vicende del paese, interpretandole secondo la propria visuale
saldamente cattolica: in Parlamento dal 1908 al 1926 e poi ancora dal 1946
(alla Costituente) alla morte, si confrontò da protagonista con le due
guerre mondiali, con la parabola del Partito popolare, con il ventennio
fascista e la Resistenza e infine con gli esordi della DC. Politicamente, si
potrebbe dire, visse l'intera fase storica di transizione dall' «Italia dei
notabili» alla «Repubblica dei partiti», per usare una formula felicemente
ricordata da Pier Luigi Ballini nella sua relazione.
Entrato alla Camera nel 1908 - come
già si è detto - Micheli fu anzitutto uomo del sistema elettorale
uninominale di allora, cosa che di per sé postulava uno strettissimo
rapporto con il proprio elettorato. Come altri protagonisti di quell'epoca,
così, egli visse con qualche difficoltà l'ingresso sulla scena dei moderni
partiti di massa, come testimoniano i suoi rapporti non sempre tranquilli
con il PPI prima e con la DC poi. In questo volume Guido Formigoni si
sofferma attentamente su un tema così cruciale. Fautore di quello che
potremmo chiamare un "partito leggero", Micheli accettò tuttavia la sfida
del sistema proporzionale, di cui anzi si fece strenuo propugnatore. Pier
Luigi Ballini descrive con accuratezza le prese di posizioni dell'uomo
politico parmigiano, finendo per tracciare una vera e propria storia della
legislazione elettorale italiana nella prima metà del xx secolo. li fatto è
che la dimensione locale di Micheli (che in ciò si differenziava da altri
politici dell' epoca giolittiana) era molto più vasta del singolo collegio
elettorale che lo mandava a Roma: egli agiva infatti su un' area più ampia,
che abbracciava non solo il parmense, ma anche la Lunigiana, e influiva poi
verso il reggiano e il modenese, oltre che, in direzione opposta, verso il
piacentino. In tal senso i risultati del 1919 mostrarono con chiarezza che
il nuovo sistema elettorale non danneggiava per nulla le sue fortune
elettorali e la sua popolarità.
La passione politica non fece di
Micheli un teorico o un politologo: sarebbe alquanto problematico trovare
nei suoi scritti argomentazioni di spessore pari a quelle di un don Luigi
Sturzo o di un (pag. 17) Francesco Luigi Ferrari (per rimanere in campo
cattolico democratico). Ma da questa constatazione non si deve dedurre che
egli fosse solo un uomo d'azione o uno sprovveduto pragmatico. Diversi degli
studi qui pubblicati mettono invece in rilievo parecchi tratti di
originalità del suo pensiero, specialmente in tema di riorganizzazione
dello Stato dopo il 1945. Giorgio Vecchio propone all'attenzione dei lettori
la documentazione inedita di quella Commissione interpartitica per lo
studio del problema regionale che fu insediata dal governo Bonomi nel 1944.
In quella sede e poi nella Consulta nazionale e alla Costituente, Micheli si
confrontò direttamente con l'ipotesi federalistica, giudicandola in linea
di principio la migliore per il futuro dell'Italia, ma tuttavia «forma
superiore quasi privilegio di popoli più progrediti politicamente e meglio
sviluppati economicamente» come la vicina Svizzera. Per questo motivo
ritenne più opportuno limitarsi a un' opera di vasto decentramento e di
potenziamento delle autonomie comunali e regionali. Coerentemente con una
tradizione politica che si era caratterizzata per la sua serrata critica
all' accentramento del vecchio Stato liberale, dunque, Micheli si pose tra
i padri della modernizzazione istituzionale dell'Italia, anche se talune sue
battaglie -come quella celebre per istituire una regione emiliano-lunense-
si conclusero con una sconfitta.
Micheli fu -lo ripetiamo-
profondamente parmigiano, legato alla sua terra in modo stretto e, per così
dire, indissolubile. Il suo rapporto con Parma e il parmense è analizzato da
molti contributi presenti in questo volume, che ampliano l'orizzonte
dell'analisi anche ai contesti politici locali dei due dopoguerra: il primo,
con la descrizione degli opposti schematismi che condizionarono pesantemente
i rapporti tra cattolici e socialisti (e poi comunisti) tra 1919 e 1922,
malgrado l'importante episodio della comune partecipazione alle barricate
del 1922 (William Gambetta); e il secondo, con significativi chiarimenti
sulla maturazione del nuovo scontro tra Chiesa e sinistre tra 1945 e 1947,
anche in rapporto alle particolarità della presenza comunista in città
(Nicola Brugnoli). Entro questo quadro Micheli fu molto condizionato dalla
situazione concreta dell'Emilia e il suo rapporto con le sinistre fu
alquanto conflittuale e privo di sfumature: lo documenta Daniela Saresella
parlando delle somiglianze e delle differenze tra Micheli e Romolo Murri al
tempo della democrazia cristiana di inizio Novecento, lo conferma Giorgio
Vecchio soffermandosi sulla fase dei governi di unità nazionale "ciellenistica"
tra 1944 e 1947. Molto va comunque ancora scoperto e studiato su questo
versante, ché l'incontro-scontro tra Micheli e le sinistre deve essere
analizzato senza trascurare un contesto più ampio. Bene fa allora Monica
Vanin a rilanciare i contributi pubblicati nel 1997 per (pag. 18) cura
dell'Istituto Luigi Sturzo di Roma e volti a restituire alla Resistenza
cattolica e, più in generale, alla presenza pubblica della Chiesa nel tempo
di guerra tutta la loro complessità e concretezza, andando oltre tanti
schematismi ancora ben radicati. Dalla relazione della Vanin escono tante
suggestioni di ricerca che andranno ascoltate e onorate nel prossimo futuro.
Si collegano a questo discorso, poi, le pagine scritte da chi fu discepolo
di Micheli: Sergio Passera, tra ricordi e ricostruzione documentaria
relativa agli anni Quaranta, smonta l'immagine di un patriarca "stanco" e
offre ulteriori spunti di ricerca sugli avvii della DC parmigiana (ma anche
emiliana e nazionale), dando al lettore un vivido panorama di episodi e di
personaggi, suggerendo tra le righe l'inderogabile necessità di avviare
finalmente una ricostruzione storica dei partiti e, in particolare, della DC.
Il riferimento al contesto di Parma
pare davvero indispensabile per comprendere la cultura e la personalità di
Micheli: e ciò, forse, in modo ancora più determinante che per altre figure
storiche. Torneremo più avanti sui motivi della sua fede religiosa e sui
connotati del suo cattolicesimo. Qui conviene anzitutto accennare alla sua
precoce riconsiderazione della storia cittadina, espressa nello studio degli
statuti delle corporazioni d'arti e mestieri, oggetto della sua tesi di
laurea in giurisprudenza (cfr. il contributo di Sergio Di Noto Marrella).
Alla storia di Parma, del resto, Micheli dedicò notoriamente molto tempo
durante tutta la sua lunga esistenza.
Ma fu soprattutto il rapporto con la
montagna a segnare in misura incisiva l'uomo. Ancora Di Noto Marrella
ricorda nelle pagine che seguono lo studio micheliano sul jus proprium della
montagna parmense, occasione per fare i conti con le tradizioni della gente
d'Appennino e con il retaggio di una struttura sociale antica. Nel 1935
l'edizione degli Statuti comunali della montagna parmense, limitata peraltro
ai territori di Borgotaro, Bardi e Compiano, rappresentò una sorta di punto
d'arrivo in questo cammino. Ma la montagna fu per Micheli una «metafora
della tradizione religiosa più genuina, capace di innervare la vita civile
delle sue popolazioni, ma anche delle nuove idee che si apprestavano a
conquistarne le vette più ardue» e contemporaneamente «lo spazio
privilegiato per costruire forme di sociabilità non strettamente
confessionali e luogo di incubazione ideale del suo impegno
politico-amministrativo», come scrive Paolo Trionfini. Entro questa
prospettiva si comprendono allora meglio le esperienze concrete di Micheli
sull' Appennino, a cominciare dalle sue celebri camminate e dalla sua
partecipazione alle vicende del locale CAI, raccontate da Pier Paolo
Mendogni. Ma si può apprezzare meglio anche la sua preoccupazione di
valorizzazione e (pag. 19) tutela ambientale delle valli, magari attraverso
la battaglia per acquisire al demanio dello Stato ampie aree degne di
salvaguardia. Pietro Bonardi, dal canto suo, si sofferma sul rapporto di
Micheli con la Val Baganza, una valle scelta a mo' di esempio tra tutte
quelle della zona. Dalla sua relazione emergono con nettezza anche le
manifestazioni elettorali locali, i riti della campagna politica, i modi dei
festeggiamenti delle vittorie e del riconoscimento delle sconfitte. Bonardi
mette pure in evidenza il costante impegno per "cattolicizzare" le stesse
vette, con la posa di croci o di cippi, quasi a segnare una riconquista
degli spazi e della natura da parte del cattolicesimo socialmente
organizzato. Per inciso si vuole qui ricordare che il 16 settembre 2001 è
stato commemorato il centenario del cippo voluto da Micheli sul Monte Fuso,
tra la valle dell'Enza e la valle del Parma, un tempo punto di confine tra
gli Stati Parmensi e quelli Estensi.
Allo sforzo di modernizzazione della
montagna -nel senso di un costante impegno per favorirne lo sviluppo
economico e sociale, anche attraverso una politica di lavori pubblici e di
creazione di infrastrutture e di migliori comunicazioni- dedica in questo
libro pagine molto interessanti Antonio Parisella. Degna di essere ripresa e
approfondita è la sua osservazione sulla "curiosa" serie di emiliani che in
epoche diverse furono molto attenti alla montagna nel corso del Novecento:
Luchino dal Verme (lombardo, ma eletto alla Camera nel collegio di
Piacenza), Giuseppe Micheli, Meuccio Ruini (reggiano, per la prima volta
eletto alla Camera nel collegio dell'Appennino Reggiano di Castelnuovo
Monti, già di Micheli), Giuseppe Medici (di Sassuolo, economista agrario,
più volte ministro e presidente dell'Istituto nazionale di economia agraria
e fondatore dell'Istituto nazionale di sociologia rurale), ed infine il
felicemente vivente e noto bolognese Corrado Barberis, sociologo rurale, che
di Medici fu il diretto collaboratore ed allievo e che lo sostituì alla
presidenza dell'INSOR. Il discorso potrebbe pertanto allargarsi da Micheli e
da Parma al complessivo e originale sforzo di modernizzazione della montagna
(e, naturalmente, più giù verso il Po, della pianura) compiuto in Emilia
nell' arco ormai di più di un secolo. Per rimanere su Parma non si possono
del resto dimenticare 1'eredità neofisiocratica e solariana che tanto influì
su Micheli, ma anche i Comizi agrari, le Cattedre ambulanti di agricoltura,
i Consorzi agrari (che nel 1892, nella vicina Piacenza avevano dato vita
alla Federazione nazionale dei consorzi agrari, proprio mentre a Parma
sorgeva la seconda Cattedra ambulante di agricoltura in Italia, guidata da
Antonio Bizzozero).
Certo, il legame con la montagna fu
vissuto anche in termini (pag. 20) spregiudicati da Micheli, che curò con
grande abilità un rapporto con la gente che oggi definiremmo senz'altro di
tipo clientelare, come dimostrano i documenti usati da Matteo Truffelli
nella sua relazione. Ma, d'altra parte e in positivo, l'uomo politico
parmigiano riuscì a inserire le preoccupazioni di tipo materiale (per le
proprie fortune politiche e per l'innumerevole folla dei postulanti) in un
quadro di valorizzazione delle persone: in sostanza, egli riuscì sempre a
fare sentire ai suoi elettori che davvero era loro vicino e li rappresentava
con dignità a Roma, comprendendone le ragioni e le passioni. Era questa,
insomma, una (non l'unica) forma di inserimento nelle istituzioni statali
degli «esclusi» dal processo unitario di nazionalizzazione, per usare una
nota formula usata da Gabriele De Rosa a proposito dei contadini siciliani
di don Sturzo. Rientra in questa prospettiva il forte impegno che il giovane
Micheli dedicò allo sviluppo delle casse rurali, secondo l'esempio dato dal
prete veneto don Cerutti. Ubaldo Delsante rileva che la
confessionalizzazione delle casse, tenacemente perseguita, corrispose
infatti all'intento di usare questi istituti di cooperazione di credito
anche come strumenti di educazione civile e cattolica, nell' ambito dunque
di un progetto di radicamento e di riconquista sociale da parte della
Chiesa. Proprio a Parma, nel 1896, nacque la Cassa centrale per le Casse
rurali cattoliche d'Italia, uno strumento per il quale si impegnarono
appunto Cerutti e Micheli.
In ogni caso, come nota Ballini,
Micheli era consapevole dei gravi limiti del sistema elettorale uninominale,
che rischiava di trasformare la rappresentanza politica in «una forma
feudale di patronato». Bisogna peraltro riconoscere che anche Micheli fu in
qualche modo un "padre padrone" del suo collegio elettorale, tanto che i
legami con la sua gente non poterono essere totalmente recisi neppure dal
regime fascista.
In questa ampia prospettiva -come
sottolinea nel suo studio Monica Vanin- Micheli fu pure un grande educatore
e suscitatòre di energie, paragonabile in questo all' altro famoso
parmigiano don Giuseppe Cavalli. Ciò si abbinò ad una costante tensione
culturale che lo pose a diretto contatto con molte delle intelligenze
italiane del suo tempo. Per la sua relazione, ad esempio, Giorgio Vecchio ha
utilizzato l'interessante corrispondenza scambiata tra Micheli e uomini come
Gioachino Volpe o Alessandro Galante Garrone (ma molti altri andrebbero
citati). La capacità micheliana di sollecitare persone a lui vicine o meno
vicine è confermata da parecchi spunti presenti in questo libro: la sua
"Giovane Montagna" costituì una pietra di paragone e un punto di riferimento
per molti giovani che all'inizio del Novecento si proposero di dare alla
democrazia cristiana (pag. 21) anche un volto sportivo e escursionistico:
dalla Giovane Puglia al Giovane Frignano, dalla Giovane Brescia alla Giovane
Bismantova, e così via. Un altro esempio, di quarant'anni più tardo, può
essere indicato nella capacità di Micheli di percepire per tempo il dramma
dei familiari dei nostri soldati prigionieri o dispersi in Russia,
sollecitando gli interessati a costituire una vera e propria Alleanza
Famigliare per i Dispersi e Prigionieri in Russia, allo scopo di reperire e
diffondere informazioni sui propri cari: fu, tra l'altro, un gesto
profetico, considerato che pochi mesi dopo anche l'ormai vecchio Micheli
sperimentò direttamente in sé il dolore atroce del padre privato del figlio.
Un ultimo punto merita di essere qui
ricordato, perché è presente in molte delle pagine seguenti. Si tratta della
religiosità personale di Micheli e del suo modo di intendere i rapporti tra
fede cattolica e impegno sociale e politico. Si trattò sempre di una
religiosità solida, ma mai esibita e, diremmo, "messa in piazza". La fede
personale di Micheli non fu una fede problematica e sofferta, tanto che
come nota Francesco Malgeri- egli non ebbe il gusto tipico di un don Romolo
Murri per la ricerca teologica e le problematiche ecclesiologiche, causa non
ultima della frattura tra il prete marchigiano e la gerarchia. No, la fede
di Micheli non era condizionata da troppi e angoscianti interrogativi, era
invece serena e "manzoniana", come verrebbe da dire pensando al suo amico
Filippo Meda, che di Manzoni ben si intendeva. In questo contavano
indubbiamente l'indole personale e la psicologia propria di Micheli, ma
certo anche l'influsso della scuola salesiana, tutta concretezza e apertura
sociale (Guido Formigoni) e altrettanto sicuramente quella tradizione tutta
parmigiana di un' attenzione diretta alle condizioni di vita della gente
povera, ben conosciuta attraverso i nomi di padre Lino Maupas, di don
Agostino Chieppi, di madre Anna Maria Adorni e di tanti e tante altre, come
opportunamente ribadisce Paolo Trionfini. In questo senso l'azione di
Micheli può anche essere interpretata come il prolungamento sul terreno
politico di una tradizione più propriamente sociale o, se si vuole,
prepolitica. Proprio la robustezza e la linearità della sua religiosità
consentirono a Micheli di affrontare con coraggio le evenienze più delicate
della sua presenza entro la Chiesa e il movimento cattolico, dai rapporti
con Romolo Murri (finemente esaminati da Daniela Saresella) a quelli, ben
più sofferti, con taluni vescovi di Parma, come monsignor Magani. Si
affermava pertanto in Micheli una pur inespressa visione di autonomia e di
laicità nel suo modo di porsi da cattolico all'interno della società e della
politica.
Inutile aggiungere altro: lasciamo a
lettrici e lettori il compito di (pag. 21) verificare la fondatezza delle
"chiavi di lettura" che abbiamo qui voluto proporre, ma pure di riscontrare
-cosa sulla quale non abbiamo dubbio alcuno- la ricchezza dei temi e la
vastità della documentazione che questo libro è in grado di offrire.
GIORGIO VECCHIO e
MATTEO TRUFFELLI
Note
I. Per dovere di completezza, va
ricordato che al convegno di Parma del febbraio 2000 fu presentata anche una
relazione di Alba Mora, dal titolo Micheli, la storia e le tradizioni di
Parma, mentre a quello di Borgotaro vi furono interventi di Corrado Barberis
su La montagna da problema a risorsa, di Oscar Gaspari su La montagna tra
politiche statali e autonomie locali: un secolo di esperienze, di Guido
Corazziari su Giovani per la montagna 2000, di Corrado Truffelli su Vincoli
geografici e potenzialità socio-economiche nel futuro dell'Appennino e di
Romeo Broglia su Le nuove tecnologie e la montagna. Nella stessa sede
Antonio Parisella presentò una relazione su "La Giovane Montagna" di
Giuseppe Micheli: un' esperienza, una politica, una cultura, le cui
argomentazioni sono state rifuse nel testo qui pubblicato. |