Premio alla Cultura 1989 della Pres

idenza del Consiglio dei Ministri

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Circolo Culturale

L'archivio parmense del 900

PRG di PARMA dall'unità d'Italia - 3a parte.a

Evoluzione urbanistica e Piani Regolatori cittadini

PARMA 1856-2001

 

Parte prima

Parte terza

NASCITA DELLA CITTA’ MODERNA

- Via della Salute (1856)

- Piano Regolatore (1887)

- Relazione Mariotti (1894)

I P.R.G. DEL SECONDO DOPO-GUERRA

PRG (1957-1963)  storia, gestione, obbiettivi

PRG (1969-1974)

- storia (1965-1980) - gestione  - obiettivi  - legislazione

Parte seconda

Parte quarta

LO SVILUPPO DELLA CITTA’ NEI PRIMI CINQUANT’ANNI

- Il Piano Regolatore (1938-1945)

- storia, gestione, obiettivi

IL PIANO DI RICOSTRUZIONE (1946-1950)

- storia, gestione, obiettivi

LA CITTA’ POST-INDUSTRIALE

 PRG (1998-2001)

- gestione (riassunto tappe principali)

- obiettivi

- bibliografia

 

appunti dell'Arch. Marzio PAVARANI

PIANO REGOLATORE GENERALE  1957 - 63

Gli anni ’50 oltre che essere quelli del “miracolo economico” sono stati caratterizzati, da una cultura architettonica tesa a rivendicare, attraverso un nascente neo-realismo, per altro espresso anche nel cinema ed in letteratura, quelle”aspirazioni alla realtà” per troppo tempo negate al fare architettonico ed in particolare al recupero dei valori della storia ed alla memoria dei luoghi. La volontà, a confrontarsi con il modo e lo stile di vita in continua evoluzione, al fine di  rivalutarne una “cultura popolare” attraverso un dialogo non stilistico, che tenesse conto della specificità dei luoghi, come predicato dalle moderne avanguardie, cadeva nell’illusione. Non ci fu una valutazione sufficiente capace di capire che il movimento razionalista, sotto una forte spinta speculativa, basata solo sull’aspetto quantitativo, non  riconosceva una cultura popolare capace di affermarsi come “cultura di massa” che, per altro non sapeva e non poteva resistere al duro confronto con il nuovo sistema produttivo. A tutto questo si affiancava la sfiducia di non possedere un controllo diretto del ambiente fisico, dove incominciava ad accentuarsi quel processo di globalizzazione del mercato e di quello del lavoro, impedendone di fatto le “mancate occasioni” di “volontà politica” in fatto di urbanistica. Parma, aveva allora, siamo nei primi anni ’50, subìto trasformazioni notevoli e poteva partecipare a quel “decollo industriale” tipico di questa fase storica. Esempio evidente era la rete viaria, allora già cospicua, che riassumeva le caratteristiche di quelle della Provincia disponendosi radicalmente e convergendo nel capoluogo; intersecata da uno schema ortogonale trovava nell’anello di circonvallazione del vecchio nucleo urbano della città una tipica barriera, dando al Comune uno sviluppo viario di Km. 430 di cui Km. 110 di rete urbana e Km. 320 di rete extraurbana. Infatti, è da considerare l’opera che nel primo settennio post-bellico è stata svolta al fine di trovare soluzioni ai problemi di comunicazione che insieme a quelli già ricordati (v. capitolo precedente), risultavano tra i più impellenti per l’intero territorio. L’infiltramento della rete provinciale e l’unificazione delle caratteristiche del tracciato compiutasi parallelamente alla risistemazione stradale nell’intero territorio provinciale e comunale, aveva il preciso scopo di soddisfare le richieste di molti Comuni indirizzando tale attività verso i problemi più urgenti e più pressanti di nuove costruzioni stradali come la Fondo–Val di Taro, rappresentando un notevole contributo sia per le nuove attività che si esercitavano all’apertura di nuove strade venendo così anche ad interessare il problema dell’occupazione sia,infine per la sistemazione dei torrenti e delle frane che, per un largo raggio della zone interessate, le nuove arterie imponevano. Analogamente, la rete ferroviaria che vedeva nel tratto Milano - Bologna la linea principale che attraversava la Provincia e che correva parallelamente alla via Emilia, rispecchiava l’organizzazione radiale viaria, tramite la costruzione di nuove linee, che unite alle precedenti interessando il territorio comunale, verificavano due incroci con la rete stradale, entrambi a livello: uno con la provinciale per Cremona e l’altro con la statale per Mantova. Così nel 1953 anche a Parma si iniziò l’elaborazione del Piano Regolatore, sollecitato dalle esigenze di interpretare in modo equo i bisogni e della società. Il P.R.G. venne redatto dai tecnici dell’ufficio comunale, ing. Vincenzo Barcellona, ing. Renzo Cola, ing. Alvaro Corboz per gli studi di fognatura e dall’ arch. Franco Carpanelli, quest’ultimo dopo il’56 come collaboratore esterno. Per quello sopra scritto non poteva essere una esperienza felice; la legge urbanistica n. 1150/42 assegnava al P.R.G. compiti ben modesti: la determinazione della rete delle vie principali (per altro gia compromessa in precedenza), la divisione in zone del territorio, l’indicazione di spazi ad uso pubblico,.. un P.R.G. che ha innovato ben poco... era sorto come una tavola d’unione di varie iniziative private nel senso che i proprietari dei terreni periferici al centro, negli anni in cui si gettavano le basi del ”piano”1953-’56, avevano presentato in tempi diversi al Comune vari piani di lottizzazione, questi piani di lottizzazione  sono stati pari, pari come li avevano presentati i privati e quindi considerando il massimo sfruttamento dei terreni che venivano inseriti nel P.R.G.; in sostanza tra i diversi proprietari si era creato un autentico mercato di suoli edificabili, lo stesso mercato che trasformava di giorno in giorno la città e creava quel “regime di collusione” che vedeva i maggiori proprietari stabilire i prezzi ai quali gli altri sistematicamente si adeguavano. In tal senso non esisteva all’interno del “mercato” una libera concorrenza in quanto emergeva l’abbondanza di aree fabbricabili, anche in virtù di servizi o di infrastrutture sorte per opera del Comune, favoriva esclusivamente i venditori, riflettendosi a danno dei futuri utenti della casa. Il ruolo delle Immobiliari veniva ridotto a causa di una domanda privata troppo insistente. Il considerare il "bene-casa” come servizio era affidato agli strumenti del piano INA Casa, il quale inizialmente stabiliva una quota a riscatto pari al 50%, poi dal ’55 in poi elevò tale quota  a due terzi; infine col D.P.R. ’59 tale patrimonio venne liquidato, col pretesto della complessità gestionale, favorendo l’acquisto dell’immobile al lavoratore, con l’eccezione di una piccola parte costruita dagli I.A.C.P., I.N.C.P., Comuni e Province. Senz’altro, a Parma, s’è fatto meno male che altrove, ciò non permette di non verificare come le cinquanta lottizzazioni, le quali nella lunga gestione del “piano” si raddoppiarono condizionarono il P.R.G. stesso, favorendo la crescita a macchia d’olio della città. Nei vari disciplinari di lottizzazione, che erano poi tanti piccoli “piani particolareggiati” si parlava di altezze non si parlava di volume, non c’era nessun cenno alla superficie coperta e tanto meno si  pensava ai servizi di quartiere; l’altezza degli edifici era stabilita con un minimo di piani, tre o quattro, che poi a seconda della capacità dei vari lottizzanti potevano essere a cinque sei piani. La distanza di confine era quella stabilita dal codice civile (m.1,30 m.2.00); quindi edifici di 15, 16 metri di altezza a distanza di 1/10 dell’altezza. Il “Piano” era limitato, almeno secondo la sezione del termine, allo studio della città lasciando inalterato quello che era l’assetto del territorio, senza considerare quello che erano gli insediamenti e le attività produttive di tutto il territorio comunale. Di verde, non se ne parlava se non in particolari casi in cui il Comune era riuscito ad inserire una certa clausola cioè, si diceva questo: per un periodo di cinque anni i lotti, ed ed erano, solitamente di due o tre per un  estensione massima di 2000-3000 mq. (quando il piano di lottizzazione era di 50-100.000 mq.) per un periodo di quattro, cinque anni, il Comune aveva il diritto di prelazione su questi terreni per fare eventuali verdi o attrezzature collettive. Il Comune volutamente o incosciamente lasciava decorrere questi termini, per cui i proprietari dei terreni, che si vedevano liberati da questo vincolo presentavano al momento opportuno altri progetti di edifici per cui questi spazi che dovevano essere di’interesse pubblico non c’erano, o se esistevano erano in maniera frammentaria e di scarsa consistenza. La viabilità, presentava il solito reticolo stradale, con incroci fitti con strade che si incrociavano a 90° con calibri che oscillavano dai sei ai dodici metri con un marciapiede con due sensi di marcia ecc.. Nemmeno l’aggiornamento apportato all’atto della adozione parecchi anni dopo(1963), dove si sottolineava le carenze statistiche della sua prima elaborazione e dove la difficoltà di cogliere un disegno d’insieme era accresciuta, poté concretizzarsi in un “sistema aperto”. Infatti, la variante del ’63 prevedeva opere notevoli soprattutto nel settore viario: la creazione dell’arteria di scorrimento a nord della linea ferroviaria per Suzzara e per Brescia, incrociando la statale della Cisa, la provinciale per Colorno – Cremona, la statale via Emilia e attraversando di conseguenza anche il torrente Parma poneva in collegamento la zona dei mercati con la zona industriale nel settore della città a nord-ovest, dando uno sviluppo viario di Km.11,800. La città era radiale - concentrica com’era sempre stata quindi automaticamente si andava avanti con queste strade di una stessa larghezza con questi anelli sempre più estesi. Dal punto di vista viario – è stato detto nella critica che si fece più avanti all’atto della revisione del P.R.G. 1963 si recepisce la tendenza in atto, ne accentua le condizioni, accentua un espansione a macchia d’olio e ne circoscrive i limiti con un anello di circonvallazione completo che raccoglieva tutte le provenienze senza preoccuparsi di deviare le penetrazioni radiali ne di razionalizzare l’intera rete”. Mentre, la campagna vedeva di anno in anno aumentare i costi di produzione e un ritardo nel processo di meccanizzazione, la città inglobando nuova forza – lavoro proveniente dal lavoro dei campi, vedeva una crescita edilizia rilevante, perdendo anche nella sua espansione una memoria dei luoghi. Dopo le prime realizzazioni del Piano del’57, che era stato semplicemente adottato e non ancora approvato dal Ministero dei Lavori Pubblici, sono passati altri sei anni prima dell’approvazione con decreto del Presidente della Repubblica. Nel frattempo con la legge del 18/4/’62 n. 167 si poterono collegare i programmi di edilizia abitativa pubblica alla pianificazione urbanistica,consentendo ai Comuni di acquistare le aree necessarie, sia per i servizi che per le abitazioni, sulla base di previsioni di fabbisogno decennale. Sulla falsa riga del P.R.G.del ’63 nel ‘64-’65 il Comune ha inserito il Piano Edilizia Economica Popolare (P.E.E.P.), e reperì alcune aree concretizzante in sette comparti per un totale 364-65 ettari cioè 3.650.000mq. Contemporaneamente, la neonata GESCAL ereditando, il patrimonio immobiliare dell’INA Casa, attribuendosi compiti più specificativi sia sotto il profilo del controllo del programma sia nella realizzazione degli stessi, affidava  in gran parte agli IACP la costruzione. Il P.E.E.P. era un programma molto ambizioso; venne approvato ma poi rifatto nel 1972 dall’ ufficio tecnico comunale con la legge n. 865/71 dove non si insisterà più sulla falsa riga di un Piano Regolatore, non ricalcando più quella densità, quella viabilità che era stata fissata dal Piano, ma sarà un Piano fatto ex-novo. Il programma del P.E.E.P. (’63) fu concretizzato, limitandosi al caso dell’Emilia sud, dove erano previsti in partenza diecimila abitanti poi non arrivarono neanche a seimila; c’era stata una sfasatura tra domanda ed offerta dove il Comune fu costretto ad accettare la domanda di parecchi privati, di parecchi soci di cooperative che avevano chiesto l’assegnazione di terreni per fare una singola casa. Contemporaneamente, alla stesura del P.E.E.P.’64, si portava avanti il discorso sul decentramento funzionale, il quale trovava alcuni anni dopo la sua concretizzazione nell’articolazione della città in quartieri, e parallelamente a ciò si incominciavano a formulare gli studi di prima approssimazione sulla revisione del P.R.G. ’63 i quali ponevano prioritaria l’esigenza di adeguati standard urbanistici per il territorio comunale.

sopra: Piano Regolatore Generale 1957-1963

File P.R.G. 1957-1963 jpg 715 Kb››

 

 

sopra: Via Mazzini vista da P.za Garibaldi

  

 

PIANO REGOLATORE GENERALE 1969 - 74

Parte terza:

STORIA

Erano trascorsi circa un paio d’anni, dal novembre del 1963,dal decreto di approvazione  del P.R.G. precedente (avuto dal Ministero dei Lavori Pubblici) discusso ed illustrato  a Roma dell’arch. Claudio Guzzon, tecnico del Comune di Parma, che la necessità di rispondere al mutare dei modelli di vita imponeva nuovi interventi sul territorio. Da tempo, la cultura italiana s’interrogava sul grosso squilibrio territoriale imposto dalla crescita delle città, intorno ad una serie di domande legate alla logica della sua trasformazione storica. Era già iniziata la cosiddetta “questione” dei centri antichi, ma non era solo quella a preoccupare la redifinizione di nuovi spazi collettivi,legate ad una nuova lettura dei bisogni sociali. La complessità dei problemi li poteva far apparire, fortuitamente, del tutto coincidenti: la questione delle aree centrali e dell’attribuzione di nuovi ruoli alle varie parti della città, da un lato, e il problema della “conservazione” e dell’uso razionale del patrimonio edilizio dall’altro, la sua crescita di rendita data dalla differenziazione dei suoli, e sempre più sollecitata dal conseguente processo di terziarizzazione e, soppratutto nel centro storico dalla salvaguardia  dei valori monumentali ed ambientali. Varie ipotesi di studio venivano formulate da più parti diventando, espressione di diverse metodologie d’intervento, il cui scopo era sostanzialmente identico (la necessità di intervenire, con chiari orientamenti nel soddisfare la vivibilità delle città) ma il modo come arrivarci era assai differente. Inoltre per porre fine alla” tipologia dello spreco” gli urbanisti, verso la metà degli anni ’60, esprimevano l’esigenza di ricercare una disciplina capace di dare un utilizzo del territorio indirizzato verso un assetto urbano più coerente alle aspettative sociali, ed una gestione più democratica al sistema della pianificazione urbanistica.  Non furono ascoltati. L’allora classe politica italiana, in tutt’altre faccende affaccendata, rimandò di prendere in considerazione l’intera revisione della legge 1150/42 e propose, in attesa di una riforma generale in materia urbanistica, la cosiddetta “legge ponte” (n. 765 del 6/8/1967). A Parma, dove l’Amministrazione comunale aveva rinnovato le sue deleghe di rappresentanza pur rimanendo dello stesso colore politico (alla giunta guidata dal sindaco ing .Giacomo Ferrari era succeduto il sindaco Enzo Baldassi) i problemi c’erano, forse, meno appariscenti che in altre città; alle problematiche insite nei denominatori comuni tipici, accumulati nel tempo, nel cuore della città restava aperta quella grossa ferita, Piazza della Pace, che già aveva visto scorrere fiumi d’inchiostro in difesa o contro questa o quella ipotesi di risistemazione. Là dove il monumento al Partigiano, ideato dallo scultore  Marino Mazzacurati e dall’arch. Guglielmo Lusignoli (recentemente modificato dall’arch. Mario Botta nel ambito del progetto per la sistemazione dell’intero piazzale) si erge nel ricordo dei nobili valori di libertà espressi dalla Resistenza, lo squallore retrostante dequalificava l’intera zona  e tutto il centro  della citta, oggi come allora considerato il “biglietto da visita” della stessa. E, mentre si stavano disperdendo per sempre (anche se in seguito le speranze non morirono mai) i tentativi per la riedificazione della facciata del Bettoli (e conseguentemente rifare “com’era e dov’era  il Palazzo Ducale) che avrebbe dovuto sorgere proprio dietro al monumento al Partigiano, dalla parte opposta del piazzale, il sindaco Enzo Baldassi al fine di iniziare una seria definizione dello spazio, bandì un concorso ad inviti per la ricostruzione del nuovo teatro Paganini. Tutti conosciamo come andò a finire nonostante vi partecipassero le più giovani e promettenti firme dell’architettura nominate da illustri professori accademici come Bruno Zevi e Ignazio Gardella. Ma quello che interessa maggiormente (al fine della conoscenza della analisi territoriale per capire l’ambiente in cui venne concepito il “nuovo” piano) è il ricordare che anche negli anni ’60 i mali che già affliggevano la città antica continuavano imperterriti a proliferare a scapito dell’intero territorio. Concentrazioni di sedi direzionali si contendevano porzioni di spazio  nella parte antica della città (cito alcuni esempi): la sede centrale della Banca del Monte in via Cavour, progettata dall’arch. Guglielmo Lusignoli, con consulenza dell’ing Pier Luigi Nervi nel 1968. Un edificio sorto al posto di un altro della stessa Banca del Monte, il quale pur rispettando in linea di massima il volume edificabile del precedente, dimostrava che l'accrescersi delle attività commerciali in quella parte di città non potevano esimersi dalla necessità di questa presenza. Un altro esempio  via Verdi la Camera di Commercio. L’edificio la cui prima licenza di edificabilità risale al 1965, e quindi in piena vacanza di “piano”, fu progettato dall’arch. Franco Carpanelli ed edificato qualche anno dopo; si sviluppa(va) su una superficie piana di mq. 2300 circa (un piano semi-interrato e quattro piani fuori terra)  destinata in buona parte ad attività commerciali; ispirato ad una poetica razionalista corrispondente ad una funzionalità legata a valori fisici e fisiologici a cui corrisponde una  cura dei particolari (*)  fu espressione di un equilibrio formale, dato nel suo insieme dalla proporzione tra le parti, atta a creare una azione innovatrice, verso una composizione architettonica nuova, in linea con le più avanzate avanguardie del Movimento Moderno. Questo edificio, ha avuto un grande riconoscimento per la sua immagine progettuale; tuttavia, eretto in quella posizione, in quel luogo non ha fatto altro che accrescere quella dinamica di terziarizzazione, a cui facevano da corona le restanti aree della città con le loro abitazioni, carenti, dei più normali servizi.

(*) es: la composizione della scala interna a forma elicoidale  con un lampadario di vetro a candelotti fusi a Murano, ancorato al piano terra da una base prismatica con catene in acciaio inossidabile

 

 
sopra: Camera di Commercio di Parma, Via Verdi

sotto: Sede Banca Monte, Via Cavour

 

Il corredo d’informazioni nel merito del ruolo che il “grande centro” assumeva, veniva discusso nel convegno tenutosi nella sede municipale del Comune di Parma il 18/1/69; data importante poiché da quel giorno si può far risalire l’inizio della gestione del nuovo P.R.G. Alla presenza di autorevoli ed illustri architetti, quali Leonardo Benevolo e Carlo Aymonino, venne spiegato dai tecnici incaricati alla stesura del nuovo “piano” i criteri adottati sui quali si basava il disegno del nuovo assetto urbano. L’attenzione, era espressamente rivolta alla proposta di un nuovo centro direzionale a sud della città (località Mariano) e all’asse attrezzato sul Lungoparma, il quale doveva collegare il centro “vecchio” con quello nuovo. Il tono che, questa proposta assumeva, pur nella sua liricità, (nella quale per altro si rivendicavano le buone intenzioni di un riequilibrio territoriale espresso in uno slogan del tempo “i problemi del centro si risolvono dalla periferia”) lasciava scoperto il momento della verifica sul contenuto. Le perplessità nascevano nel rilevare, che il meccanismo principale sul quale doveva reggersi gran parte del nuovo assetto spaziale,l’asse attrezzato sul Lungoparma, trovava o poteva trovare diversi impedimenti sia di natura economica e si anche di natura ambientale, in particolar modo, idrica. Tuttavia, non si poteva pensare che “la memoria della città a cui noi non ci sentiamo di rinunciare”(Benevolo) fosse conservata nelle condizioni attuali, con il pensiero di eludere le necessità e i compiti che le altre parti della città dovevano assumere rispetto al centro antico. Quindi, per la prima volta, maturava l’idea di una elaborazione di un Piano Particolareggiato per il centro storico:una riflessione critica verso la storia e i valori del passato che imponeva nuove scale d’intervento sulle quali dovevano basarsi le proposte avanzate dalla cultura italiana da questo periodo in poi. La nuova dimensione urbana, veniva  teorizzata anche in Italia,con l’inserimento del centro storico in una dinamica più vasta; in tale visione le nuove filosofie inerenti il sistema  di come strutturare i gradi di tutela del territorio attraverso idonee scale di intervento, in particolare in quella parte che viene definita “centro storico” esponevano due significativi atteggiamenti: la ripetizione del modulo strutturale del tessuto antico, il cui fine era quello di assicurare un corretto operare sulla città, viceversa il considerare la città antica come una realtà globale “da collocare in una conveniente posizione rispetto alla città moderna”. Il merito maggiore fu quello di evidenziare (cosa mai appurata prima)  i criteri  che potevano ridefinire il centro antico in termini di “risanamento” verificato in una tutela ambientale dell’intero territorio, ed accorgersi in termini concreti della “presenza del passato” al fine di considerarlo, “con la sua somma finita ma inesauribile di esperienze” (Portoghesi). Ma questo era solo l’inizio di quel lungo processo di maturazione sui concetti di riuso e di restauro che, nell’ambito più propriamente disciplinare  era già iniziato nel 1964 con la “Carta del restauro” dove veniva tenuto in considerazione anche la cosiddetta edilizia minore all’interno del centro antico. Però, non essendo ancora formulata la legge n°457 del 1978 (obbiettivo: criteri e modalità di intervento sull’edilizia da recuperare) al centro storico veniva demandato la sola approvazione di un piano particolareggiato il quale pur proponendo una fotografia sul esistente, rimaneva in fase esecutiva inefficiente. Nel caso specifico di Parma, fu l’Amministrazione stessa a fornire ai tecnici incaricati alla stesura del “piano” il materiale inerente “lo stato di fatto” sulle condizioni di conservazione degli edifici, (il quale si riferiva solo ad una semplice analisi dei valori storico artistici sui quali si potevano trarre indicazioni operative solo rivolte ad una specificazione tipologica) e nessun altra indicazione, venne data, ad eccezione dell’ormai “blasonata” Piazza della Pace individuata nella vocazione di  verde pubblico attrezzato. Quindi, per quella Piazza, diventata da tempo un enorme “parcheggione” altro concorso per idee (agosto 1973) questa volta pubblico e per la sistemazione complessiva; la cronaca impone di riferire a chi scrive il grosso equivoco sorto intorno allo svolgimento del concorso: la competizione per idee pensando, che tali dovevano rimanere. I partecipanti presentarono i loro progetti (indicati con un motto) senza considerare i veri interessi di realizzazione quindi non evidenziando, le concrete soluzioni di cui il requisito di funzionalità imponeva. L’esito non fu completamente soddisfacente, anche se fu attribuita una graduatoria di merito; venne, invece, preso in considerazione il contributo esterno (a concorso già chiuso) dell’Istituto di Storia dell’ Arte dell’Università cittadina, proposto dal prof Carlo Arturo Quintavalle e dall’arch. Guido Canali. La soluzione presentata in questo progetto condivisa da chi “in commissione e fuori”apprezzò i requisiti progettuali nei suoi contenuti interdisciplinari volti alla praticità e funzionalità, suscitò polemiche per come, essa s’era posta all’attenzione della gente; tuttavia, l’idea divenne da questo momento in poi base culturale ed operativa per la sistemazione  della intera zona; prova evidente è  nel verificarne oggi che, la  definitiva sistemazione, è  molto simile al progetto allora proposto. Il vento del ’68, non aveva tralasciato nel suo coinvolgimento sociale, la condizione abitativa che in Italia era per l’evoluzione dei tempi diventata problematica. Con la legge 865/71, voluta e conquistata con un grande movimento di massa, che rivendicava il bene casa inteso come servizio sociale, il nuovo “piano” non poteva essere indifferente a quei criteri innovativi tesi ad una politica organica sulla casa e dimostrare una maturazione di “coscienza urbanistica” che solo poteva favorire una più equa gestione dei diritti e dei doveri nel campo della realizzazione edilizia e non solo. La volontà,  già manifestata a Parma con il totale abbattimento dei  “capannoni”, iniziato nella primavera del ’65 e terminato alla fine del ’69 e, con il trasferimento degli stessi abitanti in altri edifici, dimostrava determinazione verso nuove risoluzioni di cui la 865/71 avrebbe potuto meglio specificare.  Inoltre, il ruolo che la Regione andava ad assumere,sostituendosi ai poteri dello Stato, poteva essere di stimolo per una più efficiente gestione del territorio (sfruttando anche la legge 865/71 per i piani di insediamento produttivo) specie in Emilia Romagna dove esisteva una sostanziale omogeneità politica fra livello regionale e locale. Tuttavia, la conflittualità espressa nella mancata definizione dei compiti fra decisione politica e quella tecnica, i limiti procedurali dovuti anche nella mancate previsioni di qualsiasi mezzo finanziario, penalizzavano le soluzioni dei problemi, nascosti anche in qualche modo all’interno di valutazioni tecniche. Per Parma al cui disegno del nuovo “piano” era già stata eliminata la parte più rappresentativa, l’asse attrezzato disegnato sul Lungoparma, la tempesta dello scandalo edilizio bloccò totalmente ogni reale realizzazione con il danno di vedere compromesso ogni sforzo che fino ad allora s’era fatto per la gestione del territorio. Le prime avvisaglie si erano verificate nella primavera del 1975, allorché i consiglieri di minoranza sollevarono in Consiglio Comunale alcune perplessità in merito ad alcune licenze edilizie. Poi, nel mese di giugno faceva la sua comparsa  in città il “libretto rosso” del Comitato di lotta per la casa, mentre la magistratura aveva già predisposto le indagini. Nel mese di ottobre venivano stese davanti al monumento al Partigiano le famose lenzuola con denunce specifiche; la Giunta comunale socialcomunista  entra in crisi e si dimette, arresti, comunicazioni giudiziarie ecc.. Anche il cambio  dell’amministrazione comunale, avvenuto con regolari elezioni, la quale mantenne la stessa identità politica (al sindaco Cesare Gherri subentrò il sindaco Aldo  Cremonini) non calmerà il susseguirsi frenetico di questa tormentata vicenda destinata a durare nel tempo con incredibili episodi. Come una metastasi, l’indagine partita dal nuovo centro direzionale si allargava per l’intero territorio comprensoriale con interessi che colpivano anche le strutture viarie, lasciando in sospeso l’intera evoluzione urbanistica della città. Questa situazione diede luogo ad una vera delegittimazione del progetto per il nuovo “piano” tramutata visivamente in una totale paralisi edilizia e all’arresto dell’economia locale in vari settori. Poche gru si vedevano in giro: quella sempre visibile fin dal 1945 nel centro storico all’interno dell’edificio farnesiano della Pilotta, quelle in via Abbeveratoia inerente l’ampliamento dell’Ospedale Maggiore, il quale nel tempo avrà modo di allargarsi ulteriormente con nuove  costruzioni sempre in sintonia con le innovazioni tecnologiche,quella riferita al nuovo Campus universitario all’estrema periferia a sud della città, e poche altre sparse qua e là ai bordi del comprensorio. Il rammarico di un occasione perduta, poteva trovare consolazione  nel  vedere la città raggruppare tutte le sue energie più sane, rappresentate non solo da intellettuali ma anche (in particolare) da gente comune, mobilitate in una scommessa di rivincita che il tempo non avrebbe negato. Nasceva in quegli  anni (dicembre ‘75) l’emittente locale, Radio Parma, la prima radio  “privata” sul suolo nazionale, la quali in pochi mesi avrebbe fatto sentire la sua voce ben oltre i confini della città. Una voce  libera posta al servizio dei problemi della gente, organizzata da un valido staff che, vedeva nel suo direttore Carlo Drapkind, l’espressione più alta di una democratica informazione. La cultura della città, doveva trovare grossi punti di riferimento con il sorgere di nuove iniziative di carattere sociale appoggiate, anche dalla formazione di nuovi circoli politico - culturali, un solo esempio: è di questi anni la  nascita del Circolo culturale “Il Borgo”; poi,  le innumerevoli mostre e convegni di carattere storico, artistico, o commemorativo-celebrativo che, favorirono anche un richiamo turistico rilevante, contribuirono a rasserenare gli animi e valorizzare le tradizioni locali. Intanto, l’innovazione legislativa maturava la legge 457/78 la quale consentiva di usufruire dei fondi pubblici anche per il recupero del patrimonio esistente. In tal senso, la dizione di “recupero” veniva sempre più palesemente intesa come atto di tornare in possesso di qualcosa nel senso del  “riuso urbano” con il tentativo di porre fine a quelle confusioni lessicali fra “restauro” (da riservare ai monumenti) e “recupero” (cioè riuso urbano) i cui termini sono specificativi di differenze nelle modalità dell’oggetto stesso dell’intervento. Ed era evidente che, il dibattito iniziato sul problema della casa (con sempre forti tensioni sociali) interessasse l’azione di riqualificazione del patrimonio dei centri storici di cui gli spazzi aperti dai nuovi provvedimenti legislativi potevano aiutare a raggiungere soluzioni; anzi, le esperienze pilota, sul territorio nazionale, interessate ad un recupero ed ad un riuso del centro antico, contribuirono in modo rilevante alla emanazione della legge 457/78 (per la parte riguardante il recupero). Bologna, ebbe il merito attraverso l’arch. Pier Luigi Cervellati (allora assessore all’urbanistica del capoluogo) di essere tra le prime a verificare sul territorio questa esperienza con una metodologia di intervento il cui studio analitico per il “restauro e riuso” (i termini appaiono insieme a dimostrazione di un non distinguo) annullava “la sensibilità del progettista restauratore (come si legge nel libro “La nuova cultura della città” scritto dallo stesso arch. Cervellati)  sostituita da un metodo rigoroso… nella classificazione per categorie tipologiche e nella definizione dell’organizzazione costruttiva e distributiva corrispondente… nell’individuazione dei parametri compostivi e tecnologici costruttivi originali… una prassi operativa progettuale… al fine di non aver mai caratteri difformi pur nelle diverse tipologie.” Evidentemente, a questa esperienza-pilota, ne seguirono immediatamente altre come quella di La Spezia (1976) Livorno (1977) le quali non si mostrarono molto in sintonia con quella bolognese. L’interesse culturale e sociale, per tali argomentazioni, inevitabilmente, interessarono anche Parma. La cronaca locale di quegli anni (in particolare nel secondo quinqunio) è ricca di documentazioni in cui si registrano notizie, specifiche riferite ai pareri sul riuso urbano del centro storico(documentate  da studi di professionisti) ed alla problematica sociale della casa; quest’ultima,  penalizzata anche dai noti eventi sopra descritti,appariva grave ma non drammatica come in altre città. Al seguito di numerose occupazioni con i relativi interventi delle Forze dell’ordine, la gravità del problema sollecitava anche una disponibilità alla revisione del P.R.G. L’interessamento di tutte le forze democratiche (dall’Amministrazione locale  ai partiti politici ai sindacati, agli Iacip, il Sunia fino al gruppo costruttori aderente all’Unione industriali ecc..) produsse basi organizzative destinate da subito ad intervenire con specifiche proposte che confluirono nella formulazione della legge sull’equo canone(27/7/78)  e conseguentemente sul problema casa. Contemporaneamente, veniva sollecitata una rapida individuazione di aree per insediamenti di tipo economico popolare(Unione industriale)ed anche un invito all’Amministrazione comunale ad apportare in breve tempo un Peep per il centro storico(Sunia).I tempi erano ormai maturi  per una ripresa di una prospettiva di variante al “piano”. Essa, doveva essere capace di interessare anche il centro storico,prendendo atto delle esperienze fatte da altre città,in merito ai nuovi orientamenti e a nuove interpretazioni disciplinari sul recupero di questa parte di città. Questi problemi d’attualità( riferiti al recupero dei centri antichi) riportarono alla ribalta nazionale la città in merito agli interventi svolti dalla Sovrintendenza ai monumenti e dall’Università per i lavori compiuti nell’intervento sull’edificio monumentale della Pilotta. I lavori eseguiti,nella primavera del 1977, nelle ali nord (destinata a museo) ed est (Istituto di storia dell’arte) mettendo in contrapposizione dialettica l’allora sindaco avv. Aldo Cremonini  e il sovrintendente di allora arch. Angelo Calvani  nella sostanza stimolarono da parte dell’Amministrazione comunale, una più attenta revisione dei criteri di conservazione nel recupero del patrimonio abitativo e quindi una rielaborazione  sulle norme espresse nel nuovo “piano” riferite,in particolare, al piano particolareggiato del centro storico. A tale scopo, vennero assunti dall’Amministrazione comunale ,destinati all’ufficio tecnico, giovani e validi architetti,smaniosi di affermarsi, a cui venne assegnato lo specifico compito di elaborare una “disciplina particolareggiata per gli interventi nel centro storico”. La meticolosità,espressa  nel elaborare una attenta analisi relativa   a favorire quel unità teoretica e metodologica da porre alla base per le concrete realizzazioni,specifiche in quella parte di città,produsse una normativa talmente rigorosa atta a scoraggiare il più semplice intervento(Bologna docet ?). Frutto di uno scienticismo di notevole spessore culturale,lo studio nella sua corposa elaborazione andava quasi ad annullarsi riducendosi a pochi cenni in quella parte che forse più di ogni altra aspettava,da tempo, chiare e precise regole d’intervento: Piazza della Pace. Ricordo: quando venne dato da parte dell’Amministrazione comunale l’incarico all’arch. Gian Carlo De Carlo per la sistemazione globale della Piazza (21/12/82), la cui proposta progettuale mostrava un autentica colata di cemento,costringendo lo stesso progettista ad abbandonare l’incarico per le varie opposizioni sollevatesi in città,la normativa debole in quella parte del centro storico divenne un comodo alibi sul quale scagionare “l’equivoco” di un errato risultato.  Ma quale altre  motivazioni potevano indurre, l’Amministrazione comunale, nel gennaio del 1978 a presentare una variante al P.R.G. con un carattere d’emergenza per “i motivi di inattuabilità” del “piano” vigente?La non rispettata previsione di un incremento demografico  (70.000 ab. rispetto al ’69,data di prima approvazione del progetto di piano mentre i dati al ’77 confermavano i livelli demografici quasi irrilevanti)o le cause di una crisi economica sociale già denunciata,a livello nazionale, nell’inverno del ‘73 con il prezzo dei prodotti petroliferi che determinarono l’austerity  e il conseguente inizio di un ristagno generale dell’economia,con conseguente riflesso per ciò che compete  l’assetto territoriale ; oppure a queste già valide premesse, quella forse espressa dall’allora assessore all’urbanistica Lionello Leoni in  incontri pubblici,(svolti  sia con gli Ordini professionali che, quelli promossi da varie Associazioni culturali ecc..) cioè quello di verificare e conseguentemente togliere “quelle mine vaganti” lasciate dallo scandalo edilizio. Tutte queste ipotesi sono da ritenere valide. Il P.R.G. lasciava sul territorio indicazioni, riferibili agli ultimi scampoli di una teoria organicistica che, aveva individuato i problemi e cercava di ordinarli gerarchicamente e di capire quali erano le soluzioni. Privato, del quasi totale assetto viabilistico,sminuito nella sua efficacia operativa, rimaneva tecnicamente valido per la competitività e compatibilità delle sue scelte le quali nel tempo avrebbero dato garanzie sugli obbiettivi da raggiungere. Ormai, la nuova società post-industriale s’era imposta,in sintonia ai nuovi fenomeni sociali,con interessi che avevano spostato ed ampliato i nuovi connotati di una politica urbanistica verso tematiche sempre più ampie in cui il ruolo tecnico doveva rispondere ad una progettualità, rivolta ad una forte ristrutturazione dell’apparato produttivo. Tuttavia, oggi a distanza di trenta anni,riconosciamo che certe indicazioni insite nel “piano” hanno avuto un notevole riscontro; penso agli insediamenti produttivi,al centro interscambio merci (Cepim) indicato in località Fontevivo (diventato per l’itero assetto regionale nodo cruciale tra Nord e Sud Europa); oppure all’intuizione avuta dall’Ente Fiera per la zona di Baganzola  la quale negli anni ottanta diede vita a quel quartiere fieristico che trasferitosi dal Parco Ducale ebbe il merito ,grazie anche al suo presidente di allora arch. Flavio Franceshi,della creazione del metting alimentare denominato Cibus, gettando la prima pietra per quella che, all’inizio degli anni 2000, sarebbe stata la conquista dell’Authority alimentare a livello europeo.
La trasformazione fisica della città era destinata a non ignorare un’altra idea del “ piano “ : il Campus universitario localizzato alla estrema periferia sud. Il crescente interesse pubblico, sorretto anche dall’apporto qualificato del corpo docente, trovò nell’emanazione della legge 6/3/1976 n°50 un incoraggiamento teso a favorire le proposte d’intervento nel settore dell’edilizia universitaria ( dipartimentale, residenziale, sportiva ). Un servizio da tempo richiesto dalla collettività, recepito dal “ piano “, con un rifiuto quasi totale dell’idea di un “ Campus anglosassone “, non trascurava la locazione preesistente in centro storico, anzi con essa intendeva essere un tutt’uno. Questa proposta, indipendentemente dalla situazione venutasi a creare all’interno della gestione del “ piano”, aveva preso subito consistenza grazie al qualificato interessamento dell’allora dirigente universitario dott. Gian Paolo Usberti; il medesimo, nel trovare l’occasione di una attività coordinatrice tra iniziativa pubblica e privata, si sforzò nell’indicare una “ricucitura “del territorio tra l’area del nuovo insediamento universitario e la città, anche per sfatare le dicerie che indicavano in questa scelta edificatoria il sorgere di una “ Cattedrale nel deserto “. In tal senso, sul territorio, per accontentare le nuove esigenze di una università al passo con i tempi, si indicarono i progetti particolareggiati necessari e gli espropri indispensabili e possibili. Sostanzialmente con questa operazione veniva evidenziato, attraverso il progetto di nuove strutture rispondenti alla creazione di nuovi corsi universitari e di nuove facoltà, idonei servizi per le stesse identificati in mense, alloggi per studenti e docenti, circoli ricreativi e sportivi ecc.. Il territorio, espandendosi, poneva l’attenzione su un tema fondamentale della pianificazione degli anni a venire, il quale potrà considerarsi l’inizio di un avvicinamento ad una nuova idea di disegno della città: la costruzione di un nuovo assetto urbano per parti, la cui differente organizzazione, favorendo una sistemazione della stessa, ne evidenzierà, a priori, la sua forma. Infine, il progetto di questo “ piano “ (che negli anni ottanta verrà corretto con ben otto varianti, con i rispettivi adeguamenti fisici e legislativi ) tra gli innumerevoli ostacoli riuscì a lasciare un’altra eredità posta in sintonia con l’evoluzione dei tempi, ormai chiarificatori del dualismo disciplinare tra l’architettura e l’urbanistica, sempre più identificate insieme. Il riferimento all’edificio delle Poste e delle Telecomunicazioni sorto nel quartiere Montebello, in una parte dell’area destinata al nuovo centro direzionale, (anch’esso rimasto orfano della struttura viaria riguardante l’asse attrezzato sul Lungoparma) non è causale. Questo edificio, progettato dall’arch. Franco Carpanelli, nella metà degli anni settanta, edificato dieci anni più tardi, su una area di superficie piana di mq. 13.000 fu destinato, per varie ragioni logistiche, a diventare la sede principale della città per il servizio postale, interpretando il ruolo che aveva la vecchia sede, nel centro storico, e demandando a questa funzioni ordinarie. Dei 13.000 mq. dell’area a disposizione, l’architetto ne rende edificabili soltanto 3.850 mq., ( per uso della Direzione) il resto ad uso esclusivo dei servizi riservati agli addetti ai lavori ed all’utenza e mette anche a disposizione un ampio parcheggio di uso collettivo. Il rigore progettuale, dato alla composizione disegnata nei due corpi principali tra loro affiancati (uno di 2.780 mq. a forma di parallelepipedo, composto da un piano seminterrato e sei piani fuori terra e l’altro a forma di cubo di 1.070 mq. di soli tre piani destinato ai servizi comuni, è sottolineato in una espressione nitida della sua struttura verticale composta da cristalli a lastre bicamere e monolitici a file alterne: una delicata rarefazione architettonica, libera da strutture e sovrastrutture che ne determinano l’attenta riuscita nell’integrazione con l’ambiente.

 

sopra: Poste di Via Montebello